domenica 23 dicembre 2012

EURO E COSTITUZIONE: PER UNA NUOVA VISIONE DELL’ECONOMIA COME SCIENZA SOCIALE

Ci avviciniamo alla fine dell’anno (la fine del mondo a quanto pare è stata scongiurata) ed è arrivato il momento di fare i bilanci. Il 2012 è stato un anno pesante da molti punti di vista: sociale, economico, politico, culturale. L’anno di governo concesso ai tecnici è stato caratterizzato da un inaridimento culturale che ha pochi precedenti nella storia della nostra Repubblica: questo infausto periodo verrà infatti ricordato come l’anno dello spread, ovvero l’anno in cui la grande finanza internazionale per tramite del suo portavoce Mario Monti ha fatto il suo ingresso trionfale sulla scena politica italiana per ribadire il suo ormai trentennale primato rispetto a tutti gli altri valori che dovrebbero caratterizzare la vita di questa Repubblica. La coesione sociale innanzitutto, la solidarietà civile e il lavoro, che mai come in quest’anno è stato massacrato, umiliato e relegato al ruolo di rincalzo di interessi privati e spesso stranieri: la disoccupazione deve essere tollerata per tranquillizzare i mercati sulla nostra intenzione a tenere bassi i salari, la flessibilità deve essere aumentata e la contrattazione sindacale ridotta ai minimi termini per invogliare i mercati ad investire in Italia, i licenziamenti devono essere più facili per attirare i capitali dall’estero e il nostro patrimonio aziendale, pubblico e umano deve essere svenduto agli investitori stranieri per consentire a loro di fare profitti e a noi di diventare pura merce di scambio. E difatti mai come in quest’anno gli investitori e gli speculatori esteri hanno esultato per l’operato di un nostro governo. Ed è ovvio che da tutte le testate giornalistiche e sedi istituzionali estere si siano levati cori di giubilo prima e appelli accorati adesso affinché Monti e la sua banda di mercenari continuino nella loro "rigorosa e sobriaopera di spoliazione dell’Italia.

Tuttavia l’evento che più mi ha colpito in questi ultimi giorni è un altro. E’ singolare infatti che proprio alla conclusione di questo anno terribile per l’Italia uno dei giullari del regime infame che da tempo ci tiene sotto scacco, Roberto Benigni, sia stato chiamato in causa per magnificare i valori contenuti nella nostra Costituzione; cercando quasi di nascondere e occultare goffamente con la forza delle suggestioni e dello slancio emotivo le modalità criminali in cui la nostra pregevolissima Carta Universale dei Diritti Umani è stata ormai vilipesa e ridotta a pura carta straccia dagli eurocrati suoi committenti. Ma di cosa si è trattato? Di una burla? Di una beffarda provocazione? Di un palese raggiro? Si sa che i giullari lavorano al servizio dei regnanti di turno (in questo caso il committente principale è stato re Giorgio Napolitano), ma c’è sempre un limite alla decenza. Vi sarete sicuramente accorti che tutto il mellifluo panegirico del giullare di corte pagato a peso d’oro ruotava intorno ad un imbarazzante controsenso induttivo: il fondamento della nostra Costituzione è il lavoro, la gabbia dell’eurozona in cui ci siamo incastrati non permette di attuare politiche economiche a difesa e tutela del lavoro, quindi la nostra Costituzione non ha più un fondamento, non serve più a niente, tranne che ad essere sbeffeggiata ed esposta al pubblico ludibrio dal primo deficiente che viene pagato per farlo. Ma c’è un altro particolare che rende raccapricciante l’intera messa in scena.

venerdì 14 dicembre 2012

PIANO DI CHICAGO RIVISITATO, PARTE DUE: BREVE STORIA DELLA MONETA DALLE ORIGINI AD OGGI


Nella seconda parte del documento Piano di Chicago Rivisitato, gli autori procedono ad una breve ma molto significativa storia della moneta, per mettere in evidenza soprattutto un concetto: fin dalla nascita delle prime società antiche, la moneta e la sua gestione è sempre stato uno strumento saldamente nelle mani delle autorità che detenevano il governo di quella stessa società, determinandone le linee guide di sviluppo economico, politico e civile. La visione invece prettamente liberista di una moneta-merce che nasce in ambito privato, come mezzo di scambio accettato convenzionalmente dai mercanti per agevolare gli scambi commerciali, è sempre stata una parentesi abbastanza limitata e circoscritta, un’eccezione all’interno della più comune moneta di stato imposta per legge dalle autorità. Una conclusione non nuova, dato che come sostengono per esempio gli economisti della Modern Money Theory, fra cui lo stesso Randall Wray, da Keynes in poi la certezza che la moneta sia un affare di stato si perde nella notte dei tempi. La leggenda invece che fa iniziare la nascita della moneta dall’utilizzo delle conchiglie per arrivare dopo uno spontaneo processo di selezione naturale fino al più affidabile e resistente oro, che doveva migliorare in termini di spazio, di tempo, di scambi possibili le ben note limitazioni del baratto fra due soli individui, è appunto poco più di questo: una favola, una leggenda, che non trova riscontro in nessuno dei documenti antichi studiati dagli storici e antropologi più accreditati.


Ma c’è un altro elemento che emerge chiaramente da questa interessante disamina storica, riguardante il ruolo stesso dell’economia all’interno di una società: la moneta, così come qualsiasi altro strumento usato dai governanti per semplificare, normare, regolare la vita economica di una certa comunità, ha in primo luogo uno scopo sociale, politico, giuridico e solo in un secondo momento quello contabile, di mero misuratore della ricchezza finanziaria posseduta dai cittadini. La moneta non è un semplice mezzo di accumulazione della ricchezza, ma uno strumento utile per consentire ai governanti una corretta redistribuzione e valorizzazione di quelle che sono i reali fattori su cui si fonda una società che intende rigenerarsi e perpetuarsi nel futuro: il lavoro, l’operosità, l’ingegno, la creatività di tutti i suoi cittadini, da quelli che con fatica si dedicavano alle attività manuali nelle campagne fino a quelli che intessevano le trame politiche, organizzative, finanziarie all’interno delle città. Una società che in nome della legittimazione dei crediti e dei debiti tra le controparti distrugge le prerogative reali e i beni prodotti da un’intera economia non può andare molto lontano. E non a caso i governanti più accorti e illuminati del passato non ci pensavano due volte a cancellare periodicamente tutto l’ammasso dei debiti e dei crediti accumulati, per consentire agli agenti economici di riprendere a produrre regolarmente e alla società tutta di liberarsi da un giogo altrimenti ferale. La moneta quindi è un concetto eminentemente politico e chi controlla l’emissione della moneta si attribuisce anche il potere politico di indirizzare e governare un'intera comunità. Dicono che la storia insegna, sarà vero? 

martedì 11 dicembre 2012

LA DITTATURA DELLO SPREAD E IL PROGRAMMA DELLA SHOCK ECONOMY IN ITALIA


Ieri è stata una giornata di fibrillazione e passione in Italia: tutti gli occhi degli analisti, degli opinionisti e degli organi di informazione erano puntati sull’andamento dello spread, che dopo essere sceso nei giorni scorsi intorno ai 300 punti base, è risalito sopra quota 350 punti base. L’indice di Piazza Affari è crollato di -2,21%. I titoli bancari sono andati a picco. L’Italia si è avvicinata di nuovo pericolosamente al cosiddetto baratro. Visi preoccupati dappertutto, catastrofismo a fiotti, paura sparsa a piene mani e raffiche di dati allarmanti. Persino il Vaticano ha ritenuto opportuno pronunciarsi, per bocca del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Bagnasco: “La casa brucia. Irresponsabile chi pensa a sé. Non si possono mandare in malora i sacrifici di un anno. Monti? Errore non avvalersene in futuro”. Ma cosa è accaduto di così straordinariamente minaccioso per l’Italia? Come mai la propaganda di regime italiana si è mossa all’unisono con tanta aggressività e compattezza? E’ accaduto un fatto normalissimo. Uno dei partiti di maggioranza, il PDL, che appoggiava il governo dei banchieri guidato da Monti ha avuto l’insolenza di dire la verità: tutti i dati economici, dal PIL, all’occupazione, alla produzione industriale, ai consumi, ai risparmi, al debito pubblico, alla pressione fiscale sono peggiorati dopo un anno di governo Monti, e quindi il PDL ha preferito non garantire più il suo sostegno incondizionato. Cosa c’è di tanto strano in tutto questo? Niente. E’ una normalissima dinamica democratica che si ripete da sempre in tutti i paese che possono ancora reputarsi tali. Tuttavia nello stato di diritto di eccezione in cui si trova incastrata da anni l’Italia all’interno dell’eurozona, commissariata di fatto dai "mercati" finanziari, ogni azione, che abbia una lontana parvenza di democraticità, diventa incredibilmente pericolosa e delicata.


Tralascio ovviamente tutto lo squallore dei tatticismi e delle questioni interne al PDL, basate su alcune rivendicazioni tipiche di un partito padronale (la riforma della giustizia, la legge sulle intercettazioni, l’incandidabilità dei condannati etc), e vado subito al sodo: in linea di principio la bocciatura al governo Monti non fa una piega. I presunti tecnici, che in realtà sono solo degli sciacalli mercenari al soldo degli interessi dei grandi poteri finanziari internazionali, hanno fallito su tutta la linea e qualcuno doveva farglielo notare a livello pubblico e istituzionale. In realtà, prima della bocciatura del PDL, il governo Monti allineato ai principi folli dell’”austerità espansiva dell’eurozona era stato bocciato addirittura dal FMI, che senza mezzi termini ha dimostrato in un suo documento, con tanto di grafici e dati inequivocabili, che continuando a fare tagli alla spesa pubblica e aumenti di tasse la situazione economica avrebbe finito per peggiorare inesorabilmente. Tutti i più accreditati ed autorevoli economisti del mondo, da qualunque latitudine del globo, hanno fatto notare a più riprese, non senza qualche accenno di ironia e sarcasmo, che la strada percorsa dall’Europa è senza ritorno e non ha via di uscita. Chi governa oggi in Europa probabilmente sa già di stare percorrendo una vicolo cieco, che prefigura la recessione come unica soluzione alla crisi: secondo loro, la deflazione dei salari dei lavoratori è l’unico modo per incoraggiare i nuovi investimenti, mentre la deflazione dei prezzi favorirà alla fine i consumi, perché la ricchezza finanziaria reale accumulata dalle famiglie aumenterà il suo potere d’acquisto e chi ha qualche risparmio da parte sarà invogliato a spendere. Chiariamo subito che una tale eventualità non è mai accaduta in passato nella storia del mondo, perché sappiamo bene quanto pesino le pessime aspettative e l’incertezza sul futuro sulle scelte di investimento e di consumo degli agenti economici, eppure l’Europa continua ad andare avanti e ad incoraggiare quei governanti che assecondano indefessamente questa strategia suicida di stampo neoliberista, mercantilista ed imperialista. Perché?

giovedì 6 dicembre 2012

PIANO DI CHICAGO RIVISITATO, PARTE UNO: LA NETTA SEPARAZIONE FRA MONETA E CREDITO


Il Piano di Chicago Rivisitato è a mio avviso, e secondo molti altri più autorevoli analisti, uno dei documenti economici e finanziari più importanti pubblicati nell’ultimo periodo. Un vero caso mondiale, che sta diventando un testo di riferimento per gli studiosi della materia e un’opera divulgativa di culto per tutti gli appassionati. Non vi nascondo che anche io ho letto il documento con molto interesse e stupore, non tanto per i contenuti che nella maggior parte dei casi mi erano già noti (si veda a tal proposito l’ampia trattazione già pubblicata sul movimento economico e culturale Positive Money) ma per il tempismo e le circostanze che ne hanno decretato il successo. Il documento è stato scritto da due economisti americani che lavorano come consulenti per il Fondo Monetario Internazionale FMI: Jaromir Benes e Michael Kumhof. Il committente di questa opera è stato appunto il FMI, che a scanso di equivoci, in calce al documento ha riportato (come spesso accade con i suoi working papers) le testuali parole: “Questo documento non deve essere inteso come rappresentativo del punto di vista del FMI. Le opinioni espresse in questo documento sono quelle degli autori e non rappresentano necessariamente quelli del FMI o della politica del FMI. I documenti descrivono in genere le ricerche in corso degli autori e vengono pubblicati per suscitare commenti e ulteriori dibattiti”.


E il dibattito in effetti si è acceso abbastanza rapidamente e vivacemente in tutto il mondo. Perché il Piano di Chicago è rivoluzionario da molti punti di vista e se applicato alla lettera ribalterebbe alla radice gli equilibri e i rapporti di forza esistenti fra lo strapotere incondizionato del sistema finanziario ormai fuori controllo e le risicate rivendicazioni politiche, economiche e sociali degli antichi stati democratici soggiogati, schiacciati, ridimensionati a ruoli e compiti sempre più marginali. Ora chi conosce anche sommariamente la linea politica di difesa ad oltranza dei grandi interessi privati e di tutela dei potentati finanziari seguita da sempre dal FMI, a tutto svantaggio del benessere dei popoli e delle democrazie, potrebbe nutrire non pochi sospetti sulla fondatezza e credibilità di questo repentino cambio di marcia. Perché oggi il FMI dovrebbe farsi garante di cambiamenti epocali di paradigma che fino a ieri ha sempre apertamente o subdolamente osteggiato? Quali reali interessi ha il FMI a diffondere nuove teorie sul riassetto dell’attuale sistema finanziario, quando i suoi maggiori azionisti, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, sono contrari a qualsiasi minima variazione di programma? Quale fregatura si nasconde dietro questo improvviso atteggiamento innovativo del FMI? Senza alcuna pretesa di essere esaustivo o conclusivo, vi offro la mia personale opinione in proposito, aprendomi già al confronto e alle smentite.

lunedì 3 dicembre 2012

USCITA DALL’EURO E RITORNO ALLA LIRA: COSA ACCADE AI TASSI DI INTERESSE E AI MUTUI?


L’economia è una disciplina della scienza sociale molto complessa e articolata, questo lo abbiamo ribadito più volte. Più ti addentri nei suoi meandri e più ti accorgi che è piena di snodi, maglie, matasse, connessioni, correlazioni spesso difficili da districare e dipanare con chiarezza ed efficacia. Per questo motivo, per affrontare meglio l’analisi, gli economisti lavorano quasi sempre utilizzando dei modelli che consentono di semplificare i comportamenti individuali e accorpare le grandezze aggregate (consumi, investimenti, spesa, offerta, domanda, inflazione etc). I modelli hanno la stessa importanza e funzione delle carte geografiche per un esploratore, perché servono ad indicare una rotta, un percorso: maggiore è la scala del modello, il grado di dettaglio e maggiore sarà la visione complessiva di tutte le strade percorribili. Ogni economista inoltre enfatizza nel modello la caratteristica che vuole di più evidenziare, così come i cartografi fanno mappe politiche, geografiche, morfologiche, toponomastiche, stradari, a seconda di quelli che sono gli usi richiesti dai fruitori. Tuttavia, quando gli economisti cercano di costruire modelli basandosi su modelli precedenti e non direttamente sulla realtà avviene il fenomeno di distorsione, di corto circuito e di inarrestabile alterazione dei risultati ottenuti che ben conosciamo: finisce la fase di utile e interessante descrizione dei processi reali e inizia quella della modellizzazione del modello, della mistificazione.


Le mappe economiche basate su modellizzazioni successive portano quasi sempre fuori strada, sia perché partono spesso da premesse iniziali sbagliate, sia perché le direzioni, diramazioni, destinazioni di arrivo hanno davvero pochi riscontri con ciò che accade intanto nella realtà o si evince dai dati sperimentali. In un precedente articolo, abbiamo visto per esempio come la correlazione che molti esploratori sprovveduti (definiti come dei veri e propri automi che ripetono meccanicamente sempre gli stessi concetti senza mai prendersi la briga di ragionare prima di parlare) fanno fra svalutazione e inflazione è nella maggior parte dei casi infondata e trova davvero pochi agganci con i dati sperimentali della realtà. Senza dubbio possiamo dire che entrambe queste grandezze influiscono a definire il “prezzo” o il valore di una certa moneta, ma partendo da presupposti diversi: l’inflazione misura il valore interno della moneta tramite il potere di acquisto, la svalutazione (o rivalutazione) serve invece a quantificare il valore esterno della moneta tramite il tasso di cambio (esiste poi una terza variabile, il tasso di interesse, che identifica il valore intertemporale di una moneta). Basterebbe già riflettere a fondo su queste definizioni per capire che fra svalutazione e inflazione c’è in mezzo un oceano di elementi, fattori, variabili, caratteristiche produttive di un certo sistema paese che impediscono la postulata e quanto mai assurda relazione diretta di causa effetto fra svalutazione e inflazione. Ma per capire meglio quanto già detto e dimostrato, ricorriamo ad un semplice esempio.