Ricordo che quando ero ragazzo, nei primi anni novanta, la
mia generazione veniva spesso etichettata come Generazione X: una definizione molto vaga, che lasciava intendere
qualcosa di misterioso, ignoto, inafferrabile. Non vi nascondo che a quel tempo una tale
marchiatura non mi dispiaceva affatto, perché si conciliava perfettamente con
il mito della fuga e della libertà che anima i giovani: mentre voi adulti siete
delle monotone costanti, noi giovani rappresentiamo un’incognita che può
spaziare liberamente in tutto il campo del reale e dell’immaginario. Era bello
essere un membro della Generazione X. Oggi che i capelli, quando ci sono,
cominciano a diventare brizzolati, penso di avere capito quale fosse il
significato di quella incognita. A
nostra insaputa, noi ragazzi nati a cavallo fra gli anni settanta e ottanta
eravamo il frutto di un esperimento
sociologico-economico-finanziario. Eravamo i primi cittadini del dopoguerra
che non avrebbero mai più avuto uno Stato
democratico alle loro spalle, dei diritti
costituzionali a cui aggrapparsi, ma semplici merci di scambio lasciate in balia dei mercati a contendersi un
posto nel mondo in perfetta concorrenza
con tutti gli altri giovani della terra, a qualunque latitudine si trovassero,
a qualsiasi prezzo e condizione. Una concorrenza sempre al ribasso ovviamente,
per la gioia della generazione dominante dei nostri padri e dei nostri nonni
che era lì pronta a sfruttarci e a vivere di rendita sulle nostre sofferenze, i
nostri sacrifici, le rinunce, la fatica.
Era il tempo del miraggio della Globalizzazione Economica Universale,
presentata da tutta la propaganda e dai tromboni prezzolati della
pseudo-cultura di sinistra, come il massimo approdo per la convivenza pacifica
e civile fra i popoli. Eppure proprio in quegli anni scoppiavano guerre in ogni
parte del mondo e ai più accorti di noi la globalizzazione cominciò a sembrare
l’ennesima pagliacciata per coprire i misfatti della solita classe egemone
politica-finanziaria. Non eravamo andati troppo lontano dalla verità. Quando
crollarono le Torri Gemelle nel 2001 la Generazione X cominciò ad avere il
primo scossone dal torpore e molti di noi iniziarono a sperimentare sulla loro pelle cosa
significano in realtà parole un po’ astruse come flessibilità, privatizzazione,
liberalizzazione dei prezzi, degli scambi, dei salari, mercato unico mondiale,
deregolamentazione selvaggia della finanza. Quello che era un sospetto cominciò
a diventare una certezza: la definizione con cui ci avevano marchiato non nascondeva
nulla di intrigante o misterioso, ma era la
semplice stringa di un’equazione ad una variabile. Un’equazione che ormai è
stata risolta per sempre. O quasi.
La soluzione però a questa equazione non è stata fornita da
noi membri della Generazione X, ma da uno di quegli stregoni alchimisti che qui in Italia sono andati per la maggiore e
nello specifico è stato fra i più convinti sostenitori dell’ineluttabilità
dell’esperimento genetico, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME (Sistema Monetario Europeo)
del 1979. Quando Mario Monti qualche
mese fa ha dichiarato senza troppi giri di parole, con una crudezza che sfiora
la crudeltà, che la generazione dei 30-40 anni di oggi è una Generazione Perduta, tutto è cominciato
ad apparire molto più chiaro. L’incognita è stata risolta, divenendo anche lei
una minacciosa costante. La Generazione
X è in realtà la Generazione Perduta, non ci sono più speranze per lei e
bisogna concentrarsi sulla prossima generazione di giovani, per cominciare a
turlupinare anche loro con falsi miti e vane speranze. Coloro che ci hanno
preceduto e speculano sulle nostre sconfitte umane, professionali,
esistenziali, hanno già decretato il verdetto. Per non perdere le rendite di
posizione e il diritto a governare le nostre vite, ci hanno massacrato con una serie infinita di menzogne e mascalzonate
che non hanno precedenti nella storia umana (qualcosa di simile ma molto più
rudimentale l’umanità lo ha conosciuto nel medioevo, intorno all’anno mille) e meriterebbero
un Tribunale Marziale ad hoc per essere giudicate con la dovuta imparzialità ed
obiettività.
Per portare avanti ed edulcorare i loro programmi di macelleria sociale si sono serviti di un’agguerrita propaganda mediatica
piena di millantatori, salvatori della patria a comando, buonisti ipocriti,
paternalisti per tutte le stagioni, indagatori del nulla e depistatori di
professione, guidata dai capiscuola Santoro, Floris, Vespa, Lerner, Gruber,
Gabanelli, Annunziata, Saviano, Fazio, Dandini, Bignardi. Il nemico ci è stato
cambiato giorno per giorno per confonderci: prima era Craxi, il cinghiale, poi
Berlusconi, il pervertito, Saddam Hussein, Osama Bin Laden, Milosevic,
Gheddafi, Chavez, la Cina, la Merkel. Mentre i veri nemici della nostra Italia
e della nostra Generazione erano molto più vicini di quanto pensassimo e
avevano le facce seriose, rispettabili e rassicuranti di Prodi, D’Alema,
Veltroni, Monti, Ciampi, Padoa Schioppa, Dini, Tremonti. Mai la nostra nazione,
neppure in tempi antichi, aveva partorito una genia così spietata e compatta di mercenari e collaborazionisti venduti
ad interessi sempre diversi da quelli nazionali.
Se una colpa può essere addossata alla Generazione Perduta è
quella dell’ingenuità. Noi ragazzi spensierati degli anni ottanta e novanta ci
siamo fidati di gente che in apparenza pareva tanto competente e indottrinata.
E lo erano purtroppo e lo sono anche oggi in effetti, ma tutti dalla parte
sbagliata, dalla parte del pensiero unico che distrugge i popoli, la coesione
sociale, le generazioni, per consentire la sopravvivenza di una ristretta cerchia di profittatori e prenditori d’accatto. Si sono fidati
di loro anche i piccoli e medi
imprenditori italiani, l’ossatura portante del nostro paese, quelli che non
hanno avuto l’accortezza di aggrapparsi a qualche cordata di speculatori o
banchieri d’assalto per fare il salto di qualità, per entrare anche loro nei
favori della classe dominante europeista.
Quello che non era riuscito in Unione Sovietica con i burocrati della Duma, a
partire dal 1979 è stato realizzato in Europa grazie ai tecnocrati di
Bruxelles. La democrazia, che
appariva ormai una conquista permanente per i popoli, veniva nuovamente messa in
discussione e scalzata da una forma
molto più sofisticata, raffinata, impalpabile di dittatura: quella finanziaria, quella che ti impone le
scelte impopolari in virtù di vincoli esterni creati ad arte, misure di
emergenza dettate dai mercati, dogmi scellerati e credenze popolari, senza alcuna
logica e poco spargimento di sangue. A parte i suicidi per disperazione o gli
omicidi per follia. Esperimento riuscito, il programma può continuare: la
Generazione X è stata abbattuta e ora possiamo tranquillamente passare alla
Generazione Y. E poi a quella Z, T, U, V, alfa, beta, gamma. Una vale una,
l’omologazione mercantilista non conosce differenze o trattamenti di favore.
Eppure, oggi ho sempre di più l’impressione che qualcosa non
abbia funzionato bene nel dosaggio dei calmanti e degli anestetici. La mia
Generazione seppure percossa e avvilita, ancora si dibatte moribonda nel mezzo
del coma vegetativo. Questa votazione in massa per il Movimento 5 Stelle è stato soltanto il primo gemito, un sussulto di
vita che potrebbe anticipare l’arrivo di un’onda
d’urto impetuosa che avrà bisogno ancora di qualche anno per distendersi in
tutta la sua potenza e ampiezza. Beppe Grillo, per quanto megafono
indispensabile e porta girevole per la stanza dei bottoni, non fa parte della
Generazione X, non la comprende fino in fondo, la sua lotta eroica sembra più
che altro un urlo di vendetta verso i coetanei che lo avevano troppo
frettolosamente isolato, emarginato, costretto al silenzio. I suoi metodi sono
spiccioli e rozzi, al pari di quelli dei suoi presunti avversari politici.
Qualcosa Grillo la afferra qua e la nell’aria, ma il grosso della contesa gli
sfugge.
Qui non sono più in ballo i costi della democrazia, gli sprechi,
le caste, ma l’esistenza stessa delle strutture istituzionali e fondamentali di una
democrazia moderna. Lo scopo non è tanto quello di arrivare al potere, ma
cambiare le forme con cui viene amministrato oggi il potere, i metodi di
redistribuzione dei redditi, i limiti e lo spazio di manovra che devono avere
oggi e in futuro lo stato sociale, le tutele e i diritti di chi rimane
indietro. Grillo ha avuto il merito di portare alcuni giovani rappresentanti della
Generazione X in parlamento, ma adesso ognuno di loro dovrà avere la forza di
farsi portavoce delle vere istanze di cambiamento che ci animano fin dalla
nascita, dal momento in cui improvvisamente cominciò ad aggirarsi in mezzo a
noi lo spettro intramontabile della “crisi”.
Il reddito garantito di cittadinanza
può essere un primo passo per arrivare a capire che qui in Italia ormai non si
possono più fare politiche economiche
espansive a favore della
cittadinanza, a causa del pareggio di
bilancio, della perdita della sovranità
monetaria. Dell’ingerenza sempre più profonda e massiccia della guida sovranazionale sulle scelte di
politica interna. Se la Generazione X vorrà davvero riscattarsi dovrà iniziare
a riprendersi tutto ciò che gli era stato tolto a partire dal 1979, con
l’ingresso nello SME.
E non parlo solo di cose concrete, atti politici, cambiamenti
economici e finanziari. Ma di veri e propri paradigmi culturali. Una parte della nostra storia e della nostra
tradizione millenaria di popolo, di continente multietnico e multiculturale è
stata sottoposta a censura e sottratta alla nostra vista. I migliori maestri
del passato sono stati ostracizzati. Leggete bene cosa diceva John Maynard Keynes nel lontano 1929 a
proposito della disoccupazione: “Può
sembrare saggio starsene seduti a scrollare il capo. Ma, mentre noi aspettiamo,
l’inutilizzata capacità produttiva dei disoccupati non si accumula a nostro
credito in una banca, disponibile per l’impiego in un momento successivo. Essa
si tramuta irrevocabilmente in spreco;
è irrimediabilmente perduta”. E Keynes era pur sempre un conservatore
moderato, un economista classico, non un pericoloso sovversivo.
Tuttavia le sue parole
appaiono oggi rivoluzionarie, di una modernità sconvolgente rispetto alla
melassa putrida e anacronistica che siamo abituati ad ascoltare dai menestrelli
del pensiero unico neoliberista, sia della presunta destra che sinistra e
perfino dei movimenti cosiddetti antagonisti. Quelli che oggi impropriamente e
indegnamente si definiscono “riformisti” sono dei reazionari in
confronto a Keynes, dei nani in presenza di un gigante. Inutilmente hanno cercato
di far credere alla mia generazione che nel passato lo scontro fosse soltanto
fra due sole fazioni, fra gli schieramenti devoti ai profetici moniti di Marx e
i sedicenti fautori della modernità globale del mercato. Senza vie di mezzo,
mezze misure. Mentre ormai appare chiaro a tutti che non è così: esiste una
modernità in Marx ed è sempre esistito un modo equilibrato per governare il
mercato verso le direzioni che arrechino maggiori vantaggi per l’intera
collettività. Non solo benefici esclusivi per una ristretta casta di
privilegiati ed oligarchi, a danno delle masse. Capirà mai Grillo quali sono i veri sprechi contro cui dovrebbe rivolgere
la sua battaglia di denuncia e di civiltà? Non quelli economici,
finanziari, che sono solo delle semplici conseguenze, dei corollari, delle
fredde voci di bilancio che hanno soltanto valore statistico o segnaletico, ma
quelli umani, generazionali, etici, giuridici, quelli che dovrebbero stare al
di sopra di qualsiasi scelta politica ed economica. Dubito che lo capirà. Lui
non conosce i disagi vissuti dalla mia generazione. Ad occhio e croce, Grillo pensa
ancora che i vincoli di bilancio, il debito pubblico, lo spreco finanziario abbia
lo stesso valore della vita umana, si misura con gli stessi ordini di
grandezza. Non è così e mai lo sarà.
La Generazione X dovrà risorgere dalle ceneri del suo
decennale oblio rinnegando i cattivi maestri da cui si è lasciata abbindolare o
guidare per inerzia e riscoprendo con calma tutte le grandi menti che hanno
illuminato di intelligenza e lungimiranza il cammino della nostra civiltà. E
non parlo soltanto di celebrità come Keynes o Marx, ma anche di sconosciuti e
anonimi professori e studiosi di provincia, che per lungo tempo hanno dovuto
vivere nell’indifferenza più assoluta, nell’isolamento completo, lontani dai
riflettori della ribalta pubblica, per far posto a personaggi indecenti e
impresentabili come i vari Alesina, Giavazzi, Monti, Zingales, Boldrin, Giannino.
A tal proposito, vi propongo di seguito l’introduzione e la conclusione di un’analisi molto lucida e interessante (nonché discutibile in ogni sua parte, come le opere
più riuscite dell’intelligenza e dell’ingegno umano) trovata per caso
scartabellando su internet, fatta dal professore di politica economica Concetto Paolo Vinci nel lontano 2000,
molto prima che il disastro annunciato
dell’euro e dell’unificazione monetaria venisse traumaticamente alla luce.
Mi sembrava giusto rendere omaggio ad una voce che forse ai suoi tempi è stata
bruscamente zittita e redarguita, perché troppo fuori dal coro. Parlo con
rammarico, dato che oggi avrei pagato il doppio delle tasse universitarie per
avere un professore così. Mentre anche io purtroppo, come molti dei miei
coscritti della Generazione X, ho avuto pessimi maestri e inqualificabili
professori. E tutto quello che so oggi ho dovuto impararlo da solo, da perfetto
autodidatta, testandolo sulla carne viva e a sangue caldo.
VINCOLO ESTERO E POLITICA ECONOMICA NEGLI ANNI NOVANTA
Di Concetto Paolo Vinci
1. INTRODUZIONE
Sebbene si
possa obiettare che è ancora troppo presto per formulare un giudizio
su alcune misure – in particolare quelle adottate dagli ultimi
governi – per il fatto che esse ancora non hanno manifestato per intero
i loro effetti, si è tuttavia, ritenuto procedere alla stesura delle
presenti note, nella convinzione che, tranne che per imprevedibili cambiamenti,
le vicende economiche degli anni Novanta
sembrano ormai così
ben delineate da consentire una valutazione complessiva degli
eventi economici del decennio appena trascorso. Prima di
procedere nell’analisi della politica
economica italiana,
sono necessarie alcune osservazioni di carattere preliminare, sugli anni che
hanno preceduto l’attuale decennio.
Sebbene
possa apparire
ovvio che non sia corretto discutere gli effetti di misure di politica economica
prescindendo dalle condizioni economiche
di partenza,
merita ricordare che tale questione di metodo ha ricevuto solo di recente
quella attenzione che deve essere riservata a questo tipo di analisi. La
sostanza di queste considerazioni può essere approfondita con
efficacia attraverso la citazione di alcuni brani di recenti saggi pubblicati
a cura di J. P. Fitoussi (1995, pag.
XXI) il quale scrive tra
l’altro nella sua introduzione:
“Vi è un assioma universalmente accettato dagli economisti, che io
propongo di
chiamare l’esistenza di un metalinguaggio, secondo cui le
relazioni macroeconomiche devono avere fondamenti microeconomici. Questo assioma stabilisce sin dall’inizio la subordinazione dell’approccio macro a quello micro, ed allo stesso
tempo classifica ed ordina le argomentazioni economiche riconoscendo implicitamente che la
microeconomia è essa stessa ben fondata. Una tale convinzione si è
spinta così
avanti, che tanti economisti pensano che sia sufficiente studiare
un’economia
alla Robinson Crusoè, per comprendere alcune importanti (macro) proprietà delle nostre reali
economie, specialmente con riferimento alla comprensione
ed analisi del ciclo e della crescita. Correndo il rischio di ribadire
l’ovvio, io, al contrario, enfatizzerò il fatto che le istituzioni
forgiano la condotta microeconomica. La reazione
ottimale di
un agente non dipende soltanto dal suo vincolo
di bilancio, ma dipende dal contesto
istituzionale e da come lo stesso si sia andato evolvendo, dalle regole del gioco
comunemente accettate nella società in cui il soggetto si trova a vivere ed operare, e dal
suo grado d’altruismo”.
Ancora, nel
primo saggio del volume in questione, riguardante il modello cui
la Russia avrebbe dovuto
ispirarsi nel suo processo transizione, Blinder (1995, pagg. 3-4 e
21-22) afferma:
“Tutti noi siamo a conoscenza del fatto che l’economia neoclassica è più adatta ad analizzare posizioni di equilibrio che fasi di transizione.…Il cosiddetto
problema della transizione è suddiviso utilmente in
due
domande:
1. dove vogliamo andare?
2.
Come possiamo
passare da qui a lì?
Si suppone che l’analisi economica sia in grado di
fornire buone risposte alla prima domanda, ma cattive sono le risposte per la seconda
domanda. E
ancora, mentre ognuno sa che la risposta alla seconda
domanda
dipende dalle condizioni iniziali, la risposta alla prima non
fa una tale
supposizione. Ma io temo di aver tracciato la dicotomia
tra
l’analisi di equilibrio e la dinamica della transizione troppo drasticamente.
Dopo tutto,
nei sistemi biologici (ed in alcuni fisici), il sentiero
da cui si
parte influenza la posizione cui si approda. Voglio argomentare
adesso che
la risposta alla prima domanda, può dipendere pure dalle condizioni iniziali. La ragione di ciò
parte da una semplice osservazione: se esiste più di
un equilibrio vitale, quello che la società sceglie –
consciamente o via la mano invisibile – può dipendere dalla sua storia,
dalla sua cultura, o anche da eventi accidentali. Dove si arriva può
dipendere anche da dove si parte”.
Infine,
sempre nello stesso volume del saggio sul programma stabilizzazione d’Israele
nel 1985, D. Patinkin (1995, pagg. 43-46) scriveva:
“Una semplice verità finale di economia
monetaria è che la condizione cruciale per il successo di un programma di stabilizzazione è che esso
goda di credibilità agli occhi del pubblico. E
nel giugno del 1985 c’erano sicuramente fattori che militavano contro la
creazione di una tale credibilità. In particolare, via via che l’inflazione accelerava nei
primi anni ottanta, il governo aveva più volte proclamato l’adozione di un
programma
in grado di bloccare l’inflazione. Nella gran parte dei casi questi programmi erano basati su pacchetti che
implicavano il blocco dei prezzi, e l’adozione di una politica dei redditi fondata
sul blocco dei salari. Essi erano accompagnati da ferme dichiarazioni da
parte dei ministri delle Finanze circa le loro rispettive intenzioni di tagliare le spese
governative e quindi
il deficit, dichiarazioni a loro volta
accompagnate
da corrispondenti dichiarazioni della Banca d’Israele
sull’adozione
di una stretta monetaria.
Ma queste dichiarazioni non
erano
rispettate, ed i programmi, uno dopo l’altro, fallivano. La
domanda
sorge a questo punto: dopo questi precedenti di fallimenti
così
scoraggianti, perché il programma di
stabilizzazione di Giugno-Luglio 1985 raggiunse la necessaria
credibilità?...A ciò occorre aggiungere un altro importante fattore. Non si può comprendere il
successo
del programma di stabilizzazione di Israele senza tenere conto
del ruolo
cruciale giocato dalla congiuntura politica unica in cui il
Governo
adottò il programma. In particolare, nelle elezioni che
avvennero
alla fine del Luglio 1984, nessuno dei due maggiori partiti,
il Labour
ed il Likud, ottenne una maggioranza stabile. Di conseguenza,
dopo alcune
settimane d’inutili tentativi, le due parti formarono a
metà
Settembre un governo di unità nazionale. Il dichiarato obiettivo
di questo
governo d’unità nazionale fu il ritiro dell’esercito israeliano
dal Libano
e la lotta serrata all’inflazione”.
Nella
convinzione della rilevanza di questo tipo di considerazioni, l’analisi
delle azioni di politica economica realizzate nel nostro Paese può essere
introdotta con alcune riflessioni contenute in un saggio di Arcelli e Micossi
(1997, pagg. 295-296):
“All’inizio degli anni ottanta la situazione
economica italiana presenta un quadro complesso, a causa degli effetti destabilizzanti degli
shock petroliferi e delle spinte inflazionistiche alimentate dalla
spesa pubblica e da un’aggressiva
politica salariale. I disordini sociali, il terrorismo e l’instabilità politica dei cosiddetti
anni di piombo, hanno contribuito ad allontanare progressivamente il nostro sistema dal
paradigma di un’economia di mercato. In sintesi, il quadro che si presenta è il seguente. Le autorità governative e monetarie stentano a
controllare
l’economia attraverso l’utilizzo di strumenti di politica
economica
tipici dei sistemi economici aperti e soggetti alla disciplina
di mercato,
e ricorrono a divieti sorretti da norme penali, nonché a
vincoli
amministrativi.
Il controllo
valutario raggiunge punte estreme, e quasi ogni violazione è soggetta a sanzione penale;
vi è un controllo diretto del
credito che si
attua con regolamenti amministrativi mediante l’imposizione
di massimali sugli impieghi bancari e vincoli di
portafoglio. I salari sono fortemente indicizzati alle
variazioni dei
prezzi,
attraverso un meccanismo di scala mobile
che trasmette rapidamente e con effetti di livellamento sui salari gli impulsi inflazionistici.
L’indicizzazione
tende a diffondersi a tutte le grandezze economiche;
ne vengono
colpiti pesantemente quei limitati segmenti in cui
il processo
di indicizzazione è in ritardo e su cui l’inflazione scarica le
tensioni.
Nel sistema finanziario ci si avvia ad un sistema di allocazione
delle
risorse molto vicino a quello di un’economia
pianificata
centralmente, le banche
perdono le caratteristiche di imprenditorialità e vengono soggette a vincoli sempre più estesi che
soffocano ogni forma di concorrenza.
L’innovazione
finanziaria, ove si
verifichi, richiama l’introduzione di nuovi
vincoli amministrativi volti ad impedire l’aggiramento dei vincoli preesistenti. Si è giunti
ad un punto in cui il dilemma tra economia di mercato
ed economia pianificata diventa scelta ineludibile...Gli anni ottanta vedono un lungo e
progressivo sforzo di recupero degli strumenti tradizionali da parte delle
autorità
monetarie che pervengono, dapprima ad un controllo
indiretto
del credito, e poi
all’affermazione di un ruolo sempre più rilevante
dei mercati
finanziari. L’eliminazione dei vincoli amministrativi
sul
credito, il successo di accordi con i Sindacati e l’eliminazione
delle forme
più esasperate della scala mobile, sono a fondamento,
insieme
alla gestione dello SME, di un formidabile
rientro dell’inflazione e dell’eliminazione delle indicizzazioni più
dannose. Non migliora invece il bilancio
pubblico a cui viene addossato l’onere di smussare molte tensioni sociali...”.
Senza
cercare di stabilire se le affermazioni di Arcelli e Micossi debbano
essere totalmente condivise, resta fuori da ogni dubbio che gli anni
Novanta iniziano dopo un decennio che può essere indicato (Signorini
e Visco, 1997) come un decennio di
disinflazione ed accumulo
degli
squilibri. Queste caratteristiche si riflettono e si ritrovano però anche
nel decennio qui considerato che inizia sulla scia di un periodo di
disinflazione (carattere che si protrae nel decennio e peraltro non del
tutto concluso, giacché in termini relativi l’inflazione italiana risulta
ancora superiore a quella dei principali partner europei) ed al
permanere di gravi squilibri in corso di formazione e consolidamento.
Esaminando
la situazione dell’economia italiana all’inizio del 1990, la
prima questione da affrontare riguarda il processo di disinflazione. Infatti,
con il secondo shock petrolifero (1979) l’inflazione tornò a far
salire la variazione dei prezzi al consumo oltre il 20 per cento. Il
forte aumento del prezzo del petrolio determinò un vistoso rallentamento
dello sviluppo in tutti i paesi industrializzati, ed in Italia il volume delle esportazioni subì una
riduzione di circa l’8 per
cento. La risposta in termini di politica
monetaria e del cambio fu
rapida ed efficace, con una riduzione dell’inflazione al di sotto del 9 per cento
nel 1984. La decelerazione proseguì anche negli anni successivi diminuendo
fino a circa il 6 per cento nel 1990. Il cambio
nominale
della lira fu adeguato solo parzialmente, e con ritardo, al più rapido
aumento dei prezzi interni rispetto agli altri paesi della Comunità
economica europea. La politica monetaria e creditizia mirò a non
assecondare un’eccessiva crescita della domanda interna, tale, da
determinare oltre ad ulteriori rialzi dei prezzi interni, squilibri gravi nei conti con l’estero.
Al rallentamento
dell’inflazione contribuì anche il mantenimento di una maggiore moderazione salariale,
conseguenza sia del mutamento
del clima delle relazioni industriali, che dell’aumento del tasso di disoccupazione (primo
grande squilibrio).
Il secondo grande squilibrio è rappresentato dal peggioramento dei conti pubblici: la sequenza di deficit pubblici determinò una crescita
del rapporto debito
pubblico/PIL dal 60 per cento al 100 per cento nel 1990. In
conclusione, all’inizio dell’ultimo decennio di questo secolo, l’Italia si
presenta con un impegno ingombrante e stringente, l’adesione allo SME (di cui si dirà nel prosieguo), e con molti
elementi di debolezza,
tra cui: 1) l’elevato tasso di
disoccupazione; 2) lo stato di dissesto
della finanza pubblica; 3) il processo
di disinflazione in ritardo
rispetto ai principali partner europei; 4) una situazione non
soddisfacente del settore industriale (a cui la stabilità del tasso di cambio
reale non
ha certo fatto bene).
4. ALCUNE CONSIDERAZIONI E
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Le vicende
dell’economia italiana dell’ultimo decennio possono essere utilizzate
per considerazioni e riflessioni di carattere generale, che, in qualche
modo, si riallacciano
alle osservazioni contenute nell’introduzione del presente scritto. Nelle
pagine precedenti si è a più riprese sottolineato che, di fatto, le condizioni iniziali hanno enormemente condizionato
le misure di
politica
economica attuate fino ad evidenziare la circostanza che governi
ritenuti agli antipodi abbiano, di fatto, adottato politiche in ultima analisi simili. Per molti il ricorso alla
terminologia vincolo
estero potrebbe
suggerire l’idea della ineluttabilità della via da percorrere, nel senso
di indisponibilità di alternative di
risanamento in grado di evitare
all’economia italiana una disastrosa
crisi finanziaria (le
avvisaglie del 1992-93 vengono spesso evocate). Detto in altri termini, come più
d’uno ha obiettato, se il vincolo estero per il decennio era rappresentato
dall’adesione all’Accordo di Maastricht, era
(è) realistico pensare ad un Italia fuori dall’Unione monetaria? Il quesito
implica anzitutto
una riflessione.
In primo
luogo va detto che qualche paese europeo – la Gran Bretagna – finora si è sottratto all’Unione monetaria e non
sembra che ivi si
siano verificati disastri finanziari. È altrettanto vero che la Gran
Bretagna ha relazioni finanziarie
internazionali tali da non renderla assimilabile
completamente all’Italia, ma non si può negare che il restare,
almeno per qualche anno ancora, fuori
dall’euro era un’alternativa praticabile al fine del perseguimento di
differenti politiche
economiche, quanto meno diverse sotto il profilo temporale. Il
riferimento temporale
suggerisce immediatamente una riflessione teorica.
In molta teoria
economica (come
osservato da Blinder) la durata
temporale e l’impatto di misure che differiscono
non nella natura ma
nel profilo temporale non è preso in considerazione, dando per scontato che sul
benessere complessivo il profilo temporale non abbia influenza
rilevante. Rimane, in ogni caso, la circostanza che pochi sono in
grado di giudicare il profilo temporale prescelto rispetto a tanti altri
possibili. Ancora, in termini strettamente e rigorosamente economici,
un’Unione monetaria che coinvolge paesi in diverse situazioni (ad esempio
Italia e Germania) richiede, come ampiamente riportato
in quasi tutti i manuali (in De Grauwe,
ad esempio), un percorso
di
convergenza, ma nessuno indica dove si situa la posizione di convergenza.
Per uscire dal generico è noto a tutti che i criteri di Maastricht furono forgiati sulle condizioni e sulle richieste della Germania, ma
economicamente nessuno si è assunto l’onere di dimostrare l’ottimalità
di una tale decisione (l’esperienza dei primi due anni di
euro sta contribuendo a sfatare la convinzione che la via scelta fosse la
migliore). Non è il caso di spingersi oltre su una via lastricata di se e ma,
tuttavia, l’esperienza sta indicando quanta cautela occorrerebbe
adoperare nell’accettare come verità
inconfutabili alcune teorie economiche solo perché oggi vanno per la maggiore.
La
riflessione di cui sopra suggerisce un’ulteriore domanda. Astraendo
dalla questione se quella perseguita fosse la via migliore per costruire l’Europa (e diversi sono coloro che non la
pensano così),
la circostanza a cui pensiamo riguarda la sicurezza con cui molti politici ed economisti italiani giurano
sul fatto che una volta perseguiti disinflazione e risanamento della finanza pubblica, la ripresa della
crescita
economica e la riduzione
della disoccupazione risulteranno un inevitabile corollario. Da questa convinzione se
ne trae la conclusione
che comunque una politica di
riduzione del deficit e del debito pubblico siano
condizioni indispensabili per la ripresa economica nazionale,
e cioè il vincolo estero di fatto
non sarebbe una condizione
imposta dall’esterno, ma una via obbligata per l’eliminazione degli squilibri
cumulati.
In
quest’ultima conclusione si può rilevare tutto il divario che oggi ci separa
dal concetto della finanza funzionale,
che sulla scia della
lezione
keynesiana (cfr. A. Lerner,
1951), era stato tanto propagandato in questo dopoguerra. Certo, anni di dissipatezza finanziaria e sprechi hanno via via eroso la fiducia nell’intervento pubblico in
economia, rendendo plausibile la convinzione del risanamento della finanza
pubblica quale premessa per la ripresa
della crescita. Per
quanto attraente possa sembrare questa convinzione dovrebbe quanto meno
fornire risposte rassicuranti a questioni quali:
– un
decennio di risanamento finanziario
pubblico con tagli massicci
agli investimenti pubblici, e sicuri pregiudizi al grado di
infrastrutturazione
pubblica può essere considerata premessa
ad una ripresa economica (anche quella fondata solo ed esclusivamente
sull’iniziativa privata)?
– I
ridimensionamenti delle spese che la ricerca
scientifica,
l’università e la scuola hanno subito come si collocano nelle prospettive di sviluppo tecnologico del nostro sistema economico?
– La
persistenza dell’attuale pressione
tributaria è compatibile con lo sviluppo
produttivo?
Fino a
quando non saranno fornite risposte convincenti a questi, e ad altri
simili, quesiti, continueranno a sussistere dubbi su come potrà essere innescata una fase espansiva, anche
alla luce di grosse
nubi che
vanno addensandosi sull’economia internazionale. Si può a questo
punto affermare che se è vero che una politica di bilancio espansiva non
significa favorire la crescita, è altrettanto vero che è tutta da dimostrare
la capacità espansiva di una prolungata
fase di bilancio pubblico restrittivo.
Quest’ultima conclusione si salda inevitabilmente al problema dell’elevato tasso di
disoccupazione che gli anni Novanta ci lasciano in eredità
(sia in Italia che in larga parte dell’area dell’euro). A tale proposito è necessario
essere consapevoli che con i tassi di
crescita del PIL attuali e prevedibili difficilmente si riduce la
disoccupazione.
Occorre una forte crescita per sperare di contribuire in maniera
consistente alla
riduzione della disoccupazione.
Alcuni
nutrono la convinzione che un rimedio efficace contro la disoccupazione
potrebbe rinvenirsi in una riduzione
generalizzata dell’orario di lavoro (cfr. Jossa,
1995), oppure in una completa flessibilizzazione
del mercato
del lavoro. Certe convinzioni sembrano essere ispirate da
un eccessivo ottimismo sulle concrete possibilità che riforme e flessibilizzazione del mercato del lavoro possono
dare ad un sostanziale
contributo alla riduzione della disoccupazione. Questo ottimismo
genera perplessità che si fondano sulle seguenti riflessioni:
– in situazioni di stagnazione della domanda
difficilmente la disoccupazione
complessiva risulta sensibile a condizioni di maggiore flessibilità e
trasparenza nel mercato del lavoro (anche se a livello aziendale
tali misure possono risultare convenienti per un dato livello di
occupazione);
– non si
trascura la circostanza che il Sindacato
sia stato finora un
pilastro importante della politica, e che con quest’ultimo andrebbero, comunque,
concordate le misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro?
Con quale consenso sociale potrebbero essere attuate misure di liberalizzazione che
comunque verrebbero considerate dai lavoratori come un peggioramento delle loro
condizioni?
Come ricorda
Patinkin, il consenso sociale è
indispensabile per programmi
di risanamento, ma rimane da chiarire, nel caso italiano, in quale contesto
istituzionale e di relazioni industriali esso sia conseguibile.
Le tre domande centrali che pone Vinci nella sua esposizione hanno trovato risposta. E nella stessa analisi dell'andamento del PIL in relazione a quello della spesa pubblica evidenziato nel mio post che hai gentilmente ospitato (e "introdotto" con eloquenti conferme).
RispondiEliminaOggi però ci troviamo di fronte a una prospettiva ancora più raggelante, che a sua volta è lo sviluppo alla ostinata mancata risposta a quelle 3 domande, che ormai paiono essere messe completamente da parte. Da ogni forza politica vecchia e nuova.
Mentre le conseguenze aperte degli "spazi di rassegnazione" di massa, ormai consolidatisi, rispetto al disegno del profitto oligarchico mondiale sono sempre più evidenti
http://orizzonte48.blogspot.com/2013/03/oltre-il-pud-1-la-cosa-20-la-casa-xyz.html?showComment=1363102160884#c2753953607067174600
Le insidie delle nuove forme di comunicazione sono molte ed è per questo motivo che secondo me dobbiamo continuare a spingere sul tasto della comunicazione diretta, razionale, logica, che rifugga le parole d'ordine e i martellamenti linguistici, che sono le prerogative di chi vuole attuare strategie di controllo e indirizzamento...bisogna continuare con i dati e le verità fattuali che ormai hanno aperto una vera breccia nella capacità di interpretazione e lettura della realtà!!! Ad ogni illusione strampalata costruita da loro, come può essere la decrescita, dobbiamo rispondere con una spiegazione logica, un dato, un fatto che ne evidenzi l'inconsistenza economica e politica...
EliminaCerto, ma questa contromisura vale, in un certo senso, per chi già ci "legge" o è culturalmente già un potenziale lettore.
EliminaCioè una minoranza che, nel calcolo del parametro "Stupidity" (è un "loro" indicatore non un mio personale epiteto), è già scontata come recessiva e superabile.
Quello che muove i "loro" calcoli è il feedback della persuasione di milioni di persone. Contro poche migliaia di non "acquisibili". E conoscendo questi numeri e queste dinamiche, il rapporto cost/benefit rimane ampiamente vantaggioso.
Anche perchè sostituendo all'idea della crescita della cultura-formazione realizzata con la spesa pubblica (che continua a essere avversata), quella della agevole "acquisizione" della verità sul web, possono continuare a legittimarsi come "apparenti" forze di rinnovamento positivo.
E proseguire a diffondere l'idea del crowding-out: dallo Stato (inefficiente e corrotto) al nuovo feudalesimo decrescista ma felice...
Dai piero per generazione X perduta possiamo anche intendere la generazione di cui hanno perso il controllo, ora siamo come Neo su matrix :) siamo un'incognita fuori controllo
RispondiEliminaIn effetti Daniele pare proprio che la variabile gli sia di nuovo sfuggita di mano...ora tocca a noi non farci incastrare un'altra volta in una monotona costante!!!
EliminaCaro Piero,
RispondiEliminaScusami per l'utilizzo di "Te" come cassa di risonanza ma leggendo l'articolo ed i relativi commenti mi sovviene una necessità che forse odiernamente e tempo permettendo non sono per altro versi riuscito ad esprimere.
Così la espongo, come tratta da altro commento in altro loco rilasciato e per altro motivo esposto:
Una moneta diversa, sono d'accordo, non risolve i problemi. Solo un salto di paradigma "sincero" nell'analisi degli stessi potrebbe farlo.
Ciò non toglie che, in assenza (ingenua o colpevole) di tale analisi, si sia perseguito uno schema che definire "opportunista" è puro eufemismo.
Tale schema ha presupposto, auspicato ed effettivamente realizzato, i propri obiettivi tramite la propria forza e capacità nel trasmettere "ignoranza" nel prossimo.
Nel soffocare la capacità critica dei propri interlocutori.
Nell'annichilire la volontà dei propri antagonisti, detrattori, competitori e contendenti.
E se da un lato risulta pur vero che Bersani non sia assurto mai a primo ministro, il suo ruolo "dominante" (positivo o negativo non spetta a me giudicare certamente) lo ha assolto nei vari incarichi da ministro cui è stato nominato. Ultimo, ma non più o meno vitale degli altri, quello di Ministro dello Sviluppo Economico nel II Governo Prodi in cui, certamente, tentò una rivoluzione nell'ambito delle considerazioni "coorporative" delle varie "arti e mestieri" ma nulla apparve od espose con orgoglio (a mia stretta memoria naturalmente e sperando di esser smentito) rispetto a "rideterminazioni" di una concezione politica "emancipata" ed "indipendente" della comunità e del suo conseguente "Stato".
Allo stesso modo Grillo si espone come alfiere di una novità.
Ora, sulla sostanza di questa novità ho avuto personalmente di che controbattere.
Ritengo, però, che il personificare il movimento con il suo presunto leader o con la secolarizzazione, ancorché presunta ed alquanto prematura, delle sue strutture faccia un enorme torto alla, sempre presunta naturalmente, capacità dei loro singoli esponenti.
Noi esseri umani siamo spesso spinti alla messa in opera negligente della pratica della catalogazione. Quella pratica che invariabilmente giudica il prossimo per compartimenti stagni e non per la loro singolare ed individuale competenza, capacita ed analisi personalmente critica.
Pertanto ed in conclusione, mi limito (anche si riconosco che il mio limite è sempre prolisso ancorché limitante nel mio personale giudizio) ad affermare, anzi, a dire che i "governi forti" sono rappresentati da persone che tentano, pur con le loro macchie, di perseguire un interesse sincero e quindi comune. Cosa certamente non rispecchiata dal precedente Governo di chiara origine "elitaria", come su quello che ancor prima lo ha preceduto di chiara origine "opportunistica".
Vogliamo ora ed oggi sperare in un "governo" di origine se non chiara almeno di ispirazione "genuina".... nella medesima speranza che il genuino giaccia nelle persone e non in ciò che "difformemente", "diabolicamente" o "deviatamente" (per opportunismo pensiero e.o convenienza) rappresentano?
Un saluto interrogativo,
Elmoamf
P.S.:
Di nuovo un saluto di ben tornato,
Elmoamf Massimo Paglia
P.S. II: il mio tentativo di cassa di risonanza trova origine nell'encomiabile lavoro di divulgazione di Quarantotto e se qui l'ho espresso è solo perché attinente e spero, nel suo piccolo, enfatizzante di una ricerca di approfondimento del pensiero ovunque esso sia in grado di giacere ma non allo stesso tempo essere in grado di esporsi!
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RispondiEliminaGenerazione X, mors tua vita mea, la capacità dei politici di aver sfruttato una generazione per il loro tornaconto personale (voti contro pensioni-posti di lavoro - opere pubbliche , etc....)creando un fardello di debito gettato sulle spalle della generazione X e seguenti (qualcuno pagherà....poi). Uno scontro tra generazioni che vede noi perdenti (senza pensione, senza barriere all'insicurezza sociale et economica) e loro vincenti (politici di tutte le schiatte) che hanno creato questo bubbone e coloro che hanno approfittato (e approfittano) di ciò che i politici hanno loro dato.
RispondiEliminaE' un duro risveglio da un lungo torpore, per tutta la nostra generazione, al quale dobbimao porre rimedio, anche trovando una solidarietà tra le generazioni (non possiamo essere noi gli X gli unici a pagare) Grillo molto probabilmente sarà solo colui che ha avuto il coraggio/opportunità di evidenziare e dire ciò che molti hanno sempre detto ma sono rimasti nel loro angolo.
Paolo D.
Grazie Piero, hai esaustivamente spiegato come mi sento-ho vissuto e dato spunti d'approfondimento preziosi. Dario
RispondiEliminaSei nella lista nera? Lottando per ottenere un prestito personale? La tua domanda è STATA DECLINATA a causa del basso punteggio di credito? Over COMMITTED? Accessibilità? Ma sai che puoi permetterti questo prestito. Prestiti Approvati in 12 ore, puoi inviarci un'e-mail all'indirizzo collinsguzmanfundings@gmail.com
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